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Il viaggio in Italia di Charles Dickens rivela un acuto osservatore e un inguaribile brontolone

In una “bella domenica mattina” del giugno 1844, una carrozza con a bordo una numerosa famiglia inglese con tanto di camerieri al seguito intraprende un viaggio in Italia, all'epoca tappa obbligata per qualsiasi amante della cultura degno di questo nome. A guidare la carovana è Charles Dickens, allora appena trentaduenne ma già celebre per opere come Oliver Twist o Nicholas Nickleby, pubblicate a puntate sulle maggiori riviste dell'epoca. Lo scrittore è in un momento delicato della sua carriera, il suo ultimo romanzo, Martin Chuzzlevit non ha avuto il successo previsto e sul suo diario americano edito due anni prima sono piovute una marea di critiche, a causa del suo severo giudizio sulle istituzioni statunitensi. Inoltre ha bisogno di soldi per sostenere il proprio tenore di vita, tanto più ora che il clan Dickens conta di quattro figli, e per far fronte alle continue richieste di denaro del padre, già in carcere per debiti. L'avventura italiana è dunque un modo per tirare il fiato e provare a rigenerarsi intellettualmente, ma anche un'occasione per continuare a scrivere, come dimostra il quaderno di viaggio tenuto dall'autore destinato a diventare le Italian Pictures. Un libro che, come egli afferma nella presentazione nono vuole essere un compendio di storia italiana, né un commento sul governo – la lezione americana è ancora troppo fresca – e neanche uno studio delle opere d'arte perché «non c'è probabilmente un quadro famoso o una statua in tutta Italia che non potrebbe tranquillamente essere sepolta sotto una montagna di carta stampata dedicata a dissertazioni su di essa».

Cosa sono dunque queste “impressioni” italiane? È ancora Dickens a parlare definendole «una serie di vaghe immagini – mere ombre sull'acqua» dei luoghi incontrati nel suo lungo itinerario che parte da Genova e si snoda attraverso le località più note e pittoresche del nostro Paese, Venezia, Milano, le Alpi Apuane, Bologna, le Cinque Terre, Firenze, Roma, per giungere a Napoli e Pompei, tappa conclusiva del viaggio. In realtà, secondo i piani iniziali il cammino avrebbe dovuto proseguire fino alla Sicilia, dove lo scrittore desidera ardentemente di vedere l'Etna, ma le impressioni negative che gli suscita la città campana e in generale tutto il Sud Italia sono così predominanti da spingerlo a tornare repentinamente verso la madrepatria. E questo cambio di programma dà la cifra dell'esperienza italiana dello scrittore inglese, dominata da un sentimento di ostilità e insofferenza che spesso gli impedisce di godere della bellezza che lo circonda mentre gli fa prontamente registrare la traccia di degrado o il particolare fuori posto.

Prendiamo per esempio Venezia, dalle «abitazioni decadute dove la mobilia, tra il maestoso e il grottesco, se ne andava in rovina» e in cui «si oltrepassavano usci spalancati, malandati e infradiciati dalla lunga immersione nell'umidità». Oppure la spettrale Ferrara «più solitaria, più spopolata, più deserta, di qualsiasi città della grande confraternita […]; e le persone che passano e ripassano nei luoghi pubblici, sono così poche, che la carne dei suoi abitanti potrebbe davvero essere erba e crescere nelle piazze». Roma invece si rivela ai suoi occhi una delusione immensa, una città come qualunque altra, addirittura paragonata a Londra: non lo colpisce San Pietro, nelle collezioni del Vaticano trova che ci siano capolavori ma anche «una considerevole quantità di robaccia», non sopporta la maggior parte dell'arte barocca, a parte Bernini ovviamente, trova da ridire sul tempo che immaginava sempre soleggiato anche in febbraio – mese in cui vi soggiorna; lo consolano le rovine antiche e certi scorci malinconici, eredità di quel clima romantico che lo scrittore ha respirato in Inghilterra fin dall'infanzia.

Ma allora alla luce di queste impressioni, chi è veramente Charles Dickens? L'acuto, ironico e appassionato narratore della società o l'inguaribile brontolone, maestro nel notare il lato avverso di ogni cosa? Probabilmente tutt'e due le cose; è un viaggiatore attento che non vuole cadere nella trappola del facile entusiasmo e che tuttavia esagera nell'effetto opposto; è un ammiratore del nostro passato e della nostra cultura che però mal sopporta se la sua immagine mentale non corrisponde a quella reale. A noi comunque non resta che gustare le pagine di grande letteratura che anche questo diario di viaggio in molti passi riesce a offrirci.